Commiserazione

com-mi-se-ra-zió-ne

Significato Sentimento di chi considera con compassione o disprezzo

Etimologia voce dotta recuperata dal latino commiserari, derivato di miserari ‘compatire, compiangere’, da miser ‘pvero, sventurato’, col prefisso con-.

  • «Non mi commiserare, sarebbe potuto succedere a chiunque.»

Il fatto che ‘commiserare’ significhi ‘considerare con compassione’ e ‘considerare con disprezzo’ ci fa capire che la questione è irrisolta. Irrisolta nei nostri animi, e perciò irrisolta nella lingua. Questo però è uno dei casi in cui una considerazione etimologica può aiutarci a capire la forma di questa confusione.

Per noi il misero è cristallino: è povero, è insufficiente, è spregevole. La miseria è una ristrettezza estrema, anche morale. Ma difficilmente diremmo che la miseria è infelicità, che il misero è sventurato: sono soprattutto accezioni letterarie, e sono proprio quelle che si conservano prossime ai significati centrali del miser latino (peraltro di origine oscura).

La commiserazione è fondamentalmente la partecipazione all’infelicità altrui. Messa così non presenta profili problematici, nevvero? Un problema è che l’infelicità altrui, la miseria altrui, ci fa schifo. E non solo, è anche motivo di orgoglio, occasione di paternalismo, chiamata alla superiorità: nel confronto con la situazione miseranda c’è chiaramente un alto e c’è chiaramente un basso.

Succede anche con altre parole del genere.
Con la pietà — parola luminosa di contatto con la sofferenza altrui — lo schifo è tale che il ‘far pietà’ è di fatto un ‘fare schifo’. Tanto che al fine di sostituirla si tentano fughe improbabili verso la pietas, usata come sinonimo-senza-la-parte-che-repelle, e che però vuol dire tutt’altro (la pietas è il sentimento ossequente delle divinità, della patria e della famiglia proprio della religiosità romana).
La pena nasce come afflizione giusta, secondo giustizia, e trova difficilissimo affrancarsene (se una situazione mi fa pena mi accora, ma tant’è).
La compassione è forse l’unica che riesce davvero a mostrare un volto diverso. Non in purezza: anche il ‘far compassione’ ha in sé una certa insofferenza, come davanti al ridicolo e al farsesco — pensiamo a un risultato da far compassione. Però (forse anche più della pietà, che pure di respiro spirituale ne ha altrettanto) riesce davvero a presentarsi come una partecipazione sofferta e autentica dei mali altrui.

La commiserazione soffre il misero: non può eludere che si sta confrontando davvero con la miseria, quale che sia, e quindi non riusciamo a liberarla da implicazioni di repulsione, o di benevolenza condiscendente — che è una delle forme del dominio. Ma tenendo in testa la tradizionale maggiore ampiezza della misera a cui accennavamo, possiamo provarci.
Posso ricordare con malinconia la commiserazione con cui hai saputo avvicinarti a me nel momento difficile in cui allontanavo chiunque; posso parlare della commiserazione con cui abbiamo accolto qualcuno dopo un risultato infausto e dalle gravi conseguenze; posso commiserare chi vive nella paura, nella rabbia e nell’odio, e perciò prende posizioni dettate parola per parola dalla sofferenza.

Quel ‘con-’, lo sappiamo bene, racconta una situazione di partecipazione. La commiserazione sa offrirci un senso di partecipazione all’infelicità — che è più vasta e delicata del dolore, quello a cui partecipa la compassione. E se riusciamo a lasciar seduti in sala d’aspetto schifo e superiorità, che germoglio potente, e quanta umanità in una sola parola.

Parola pubblicata il 07 Giugno 2025